Proprio come il colore è un riflesso delle sue relazioni con ciò che gli sta intorno, un artista sedimenta l’immagine in base al proprio accumulo di memorie, di strati. Diceva Otto Dix: “Tutto ciò che si dipinge è un’autodescrizione”. Dobbiamo quindi intendere la propagazione del colore, nell’opera di Štěpán Zavřel, come qualcosa che va al di là del suo tono: come sostanza (terra, sabbia, legno, pietra, pianta), come superficie (montagna, nebbia, aria, fiume), come luce (tramonto, sera, mattina, lontananza), e soprattutto come riflesso dei moti dell’anima (dolore, felicità, serenità…).
È sopra queste superfici e sostanze che i colori di Štěpán Zavřel riflettono i suoi ricordi e luoghi, con una cromatica particolare. Accanto alla sua cromaticità influenzata dall’espressionismo tedesco o la luminosità bizantina, dobbiamo aggiungere altre influenze: il borgo di montagna e la sua vita interiore.
Qui affiora l’impatto di alcuni temi sull’artista, e si legge il riflesso di tutto ciò che gli stava intorno. Nella rappresentazione degli interni, dove i volti sono illuminati drammaticamente, si nota una paletta densa, in contrasto con la luce pacifica dell’esterno, dove i toni sono caldi, armoniosi, sereni. Sembra quasi che lo spirito plumbeo della stanza medievale lo sommerga con la sua interiorità, mentre in contrasto lo spirito si apre calmo e chiaro alla natura, al paesaggio, alla montagna, alla terra e alle nuvole.
È il riflesso di tutto ciò che proviene dal luogo della sua esistenza che crea la patina impressa da Zavřel al suo colore. Da lì il suo rosso mattone, o i suoi grigi di pietra o di sabbia, o i suoi verdi essiccati o il violetto opaco e soprattutto quel rosa antico che è una bellissima risonanza della luce delle montagne nel tramonto di Montaner. Il colore diventa un’emanazione dell’intorno, che a sua volta ci mostra il suo riverbero attraverso lo sguardo e la mano dell’artista.
Testo di Gabriel Pacheco